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Capitolo 8


Emerita testa di cazzo






“Solo una testa di cazzo


ha una risposta per ogni domanda


e una sporta di consigli.”


~ Charles Bukowski






Teresa


Testa di cazzo, ecco cos’ero, un’emerita testa di cazzo.


Mi svegliai con un ormai troppo familiare mal di testa, la luce del sole si rifletteva sul mio viso filtrando dalle finestre. Nascosi il volto sotto al cuscino e mi ripromisi di proporre a Travor di mettere delle tende a quelle dannate vetrate. 


Che poi, cosa me ne sarebbe importato se avesse affisso delle tende alle finestre una volta che mi avesse cacciato di casa? Perché si, ero sicura che fosse quello il suo intento dopo la mia bravata della notte precedente, ed ebbi conferma della mia ipotesi grazie ad un post-it sul quale lessi che avremmo dovuto parlare.


Stropicciai nel pugno il quadratino giallo che avevo trovato sul tavolino ed emisi un piccolo grugnito di disappunto verso me stessa. Non ero stata in grado di seguire le sue regole per nemmeno una settimana. 


Emerita testa di cazzo!


Sullo stesso tavolino dove avevo trovato il biglietto c’era un bicchiere d’acqua ed una pastiglia.


Non capivo perché Travor si sforzasse di dimostrarmi che non era una brava persona, irritandosi quando io lo ringraziavo e dicevo che non tutti avrebbero fatto quello che lui stava facendo per me, quando dai suoi gesti era evidente che avevo ragione io. Diamine, aveva dovuto pulire il mio vomito – si, purtroppo ricordavo ogni cosa – e malgrado tutto la mattina seguente mi aveva fatto trovare un antidolorifico ed un bicchiere d’acqua al mio risveglio! Se lui non era il principe azzurro al quale tanto non voleva essere paragonato, non avrei mai voluto conoscere la bestia!


Presi la pastiglia e mi tirai in piedi sentendo subito un senso di vertigine invadermi e provocarmi un conato. Presi un bel respiro e una volta ripresa mi guardai intorno in quell’appartamento che in realtà fino ad ora non avevo mai vissuto.


Erano cinque gironi che dormivo in casa di Travor, ma a parte qualche doccia era tutto ciò che facevo in quel loft. Prima della sera prima in effetti io e Travor ci eravamo incontrati di rado. Comunicavamo solo tramite i post-it, avevo iniziato io quando avevo cercato nella borsa qualcosa su cui scrivergli che sarei uscita per lasciare qualche curriculum in giro, perché mi sembrava giusto avvertire il mio ospite se rientrando non mi avesse trovata a casa. Poi aveva iniziato ad utilizzarli anche lui per avvertirmi che sarebbe rimasto a lavoro fino a tardi, che non avrebbe pranzato a casa, io che avrei cenato fuori, che sarei rincasata sul tardi alla sera. Praticamente ci stavamo evitando a vicenda; quando io mi svegliavo lui era già andato a lavoro, quando lui andava a letto io rientravo da qualche locale.


Sentii la suoneria familiare del mio cellulare ed andai alla ricerca della mia borsa. Quando sul display lessi la parola “papà” sentii la stessa stretta allo stomaco che avevo provato la sera prima, quando rispondendo al telefono avevo sentito la familiare voce di mio padre che mi pregava di tornare a casa. Il senso di colpa mi aveva travolta e gli avevo riattaccato il cellulare in faccia per poi andare ad ubriacarmi in un locale. Pessima mossa.


Con un nodo in gola attaccai la chiamata. Mi vergognavo troppo per affrontarlo in quel momento, sino a che non mi fossi rialzata con le mie forze non sarei tornata da mio padre, lui non si meritava di vedermi in quello stato, non si meritava una figlia distrutta dall’interno che non era in grado di rimettere insieme i suoi pezzi ma solo di infrangerli in pezzetti sempre più piccoli.


Andai in cucina per lavare il bicchiere e mi accorsi che il lavello era ancora pieno di piatti. Mi guardai intorno e notai che in effetti la cucina era un mezzo disastro. Ricordai il bagno e la lavanderia pieni di calzini e biancheria da lavare e mi venne in mente un’idea. 


Dovevo convincere Travor che non ero un’emerita testa di cazzo, e che non aveva fatto uno sbaglio ad ospitarmi a casa sua.
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