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Capitolo 11 


She’s






“She is brave and strong and broken all at once. 


As she speaks it is as if her existence is no longer real to her in it self, 


more like a living epitaph to a life that was.”


~ Anna Funder






Travor


Teresa era coraggiosa, forte e spezzata tutto in una volta, a differenza mia, che ero spezzato e basta.


Lei era coraggiosa, perché senza accorgersene stava lottando una guerra contro se stessa. Era forte, perché nonostante fosse inciampata e caduta più di una volta si era sempre rialzata. Lei era spezzata, perché malgrado i due punti precedenti, la morte della persona che amava, lo stravolgimento della sua completa esistenza, aveva marcato a fuoco la sua anima.


Dei rumori alle mie spalle mi portarono a voltarmi e a spezzare il filo dei miei pensieri. Posai il mestolo con il quale stavo assaggiando il sugo sul ripiano in marmo e girai il busto in direzione del divano.


Tess si era finalmente svegliata, aveva dormito oltre l’ora di pranzo, ed adesso si adoperava a togliere le lenzuola dal divano per poi piegarle e riporle nella cassapanca vicino alla porta d’ingresso. Il tutto lo stava facendo con indosso solo una vecchia maglietta da uomo, che a malapena le copriva il sedere, sedere sodo e tondo dal quale mi apprestai a togliere lo sguardo.


«Buongiorno», ero sicuro che non si fosse accorta che mi trovavo in cucina e ne ebbi la conferma quando saltò sul posto. 


Mi sfuggì un piccolo sorriso, nessuno dei due era abituato alla presenza dell’altro e più di una volta ci eravamo spaventati a vicenda, senza però averne l’intenzione.


Con la mano al petto spostò lo sguardo su di me e ricambiò il saluto.


«Pensavo fossi a lavoro» mormorò.


«È domenica», se ero riuscito a smettere di guardarle il sedere, con meno facilità riuscivo a smettere di guardarle le gambe.


«Oh, giusto» borbottò.


Si passò una mano tra i capelli, che erano un groviglio di ciuffi scuri, e la maglietta si sollevò mostrandomi i suoi slip leopardati. 


Se una cosa di Teresa l’avevo imparata è che aveva della biancheria piuttosto eccentrica; tra calzini con i pinguini, mutandine animalier e reggiseni con gli ananas, portava così tanti colori e fantasie nascosti dagli abiti, che compensavano con il loro nero.


Ero sicuro che fosse così anche il suo essere. Avrei messo la mano sul fuoco che la sua anima brillasse di più colori dell’arcobaleno, ma la celava con una coltre nera di dolore e tristezza da così tanto tempo che ormai si era dimenticata di che colore fosse.


«Dovresti indossare dei pantaloni», spudoratamente continuai a guardarla ma non sembrò essere in imbarazzo.


Recuperò dal pavimento un paio di leggings e se li mise, poi dopo aver preso un cambio si diresse verso il bagno.


Come se quel misero pezzo di elastan avesse migliorato la situazione… Pensai tra me e mentre mi dava le spalle e percorreva il piccolo corridoio. Le sue chilometriche gambe erano avvolte alla perfezione e forse erano addirittura più invitanti.


Cercai di cacciare via quei pensieri poco opportuni dalla mia testa e tornai a concentrarmi sul pranzo prima che si bruciasse.


Quando tornò dal bagno la sua tenuta non era cambiata di molto, indossava un reggiseno sportivo giallo fluo sotto una felpa mezza aperta grigia e un nuovo paio di fuseaux.


«Ti piace la pasta al sugo?» chiesi mentre scolavo i spaghetti.


«Si».


La guardai con la coda dell’occhio e notai che mi stava fissando.


«Che c’è?» chiesi senza troppe cerimonie.


Si posò contro il bancone dell’isola e fece spallucce. «Non abbiamo mai pranzato o cenato inseme, da soli».


Era vero. Da quando dividevamo l’appartamento non avevo fatto altro che evitarla, anche dopo averle detto che non lo avrei più fatto, al massimo ci eravamo trovati a fare colazione insieme. Ma qualcosa era cambiato dalla mattina precedente, da quando avevo buttato nella spazzatura quei maledetti Coco Pops e l’avevo portata a fare colazione fuori e poi a cena dai miei amici. Mi ero reso conto che non era poi così male mangiare in compagnia e che non mi dispiaceva poi troppo averla tra i piedi.


Certo, mi ero nuovamente comportato da pazzo lunatico, mollandola li, sul divano, dopo che mi aveva raccontato del suo fidanzato, solo perché la sua domanda mi era risultata scomoda. Ma alla mattina avevo cercato di rimediare preparandole il pranzo… conta, no?


Ignorai la sua osservazione e condii la pasta col sugo.


Ci accomodammo nel piccolo tavolo rotondo posto vicino ad una delle grandi vetrate in un angolo della cucina ed iniziammo a mangiare in silenzio.


«Ti piace?» chiesi guardandola di sottecchi.


Masticava lentamente e rigirava gli spaghetti nel piatto, non ero un cuoco stellato ma la pasta non era venuta così male…


Alzò lo sguardo un po’ perso su di me. «Certo», fece un mezzo sorriso.


«Non hai fame?».


Posò la forchetta sul tovagliolo di carta e si lasciò ricadere contro lo schienale della sedia.


«Perché mi stai facendo un interrogatorio?».


Sembrava arrabbiata ma non ne capivo la ragione. 


Aggrottai la fronte. «Non è un interrogatorio».


Posai a mia volta la forchetta, mettendola in bilico sul piatto.


Ci sfidammo per un lungo istante con lo sguardo, c’era aria di lite ma ancora non ne capivo la ragione.


«Scusa» borbottò cedendo per prima. «Non ho molta fame, di solito non magio a pranzo».


Mi accigliai. Avevo sempre evitato di essere a casa per l’ora di pranzo o per quella di cena, o se c’ero io era lei a non esserci, non mi ero mai chiesto però se lei mangiasse…


«Lo sai che puoi prendere quello che ti pare dal frigo, vero? O se vuoi ordinare qualcosa puoi usare i soldi che sono nel barattolo dentro il primo armadietto», indicai da quella parte.


Non mi aveva sfiorato l’idea che magari non avesse i soldi per fare la spesa o che non le andasse di mangiare quello che avevo comprato io sentendosi di troppo… mi diedi una pacca mentale sulla testa. 


«Non è per quello e non voglio i tuoi soldi» disse mettendosi sulla difensiva.


Mi incenerì col suo orgoglio ed alzai le mani in segno di resa. «Era per dire, se ti serve qualcosa puoi chiedere».


«Stai già dividendo i tuoi spazi con me, non ti chiederò anche dei soldi».


Fece stridere le gambe in legno della sedia sul pavimento della cucina mentre si alzava.


«Dove stai andando adesso? Finisci di mangiare!», non volevo farlo sembrare un’ordine ma mi uscì male.


A differenza della mia ex, che al suono del mio tono avrebbe fatto quello che le avevo detto, Tess mi guardò male e trattenendosi dal mandarmi a quel paese uscì dalla cucina per poi, poco dopo, sbattersi la porta di casa alla spalle. 


Cos’era appena successo? Mi chiesi tra me e me. 


Se io ero lunatico, Teresa non era da meno… 
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