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Capitolo 3 




Dipendente da te






“Le parole che vengono 


spesso associate alla dipendenza


includono termini come ossessivo, 


eccessivo, distruttivo, compulsivo, 


abituale, attaccato e dipendente.


E se ci pensi, alcune di queste parole 


sono usate anche per parlare di amore.”


~ Brenda Schaeffer






Travor


Il sole stava tramontando e gli ultimi raggi superstiti filtravano attraverso le grandi vetrate colorate. Il pavimento in marmo rifletteva la luce tingendosi di colori caldi; dall’arancio al rosso, di giallo e di verde.


Percorsi la piccola navata per raggiungere la sagrestia, delle sedie erano sistemate in circolo, un tavolo in metallo in un angolo ospitava un piccolo buffet composto da caffè e ciambelle. Presi posto in una delle sedie vuote, feci un cenno col capo ad un paio di ragazzi che avevo già incontrato, poi posando i gomiti sulle cosce presi a giocherellare con l’anello che avevo al pollice.


Mi guardai intorno nella piccola stanzetta, pareti e pavimenti erano rivestiti interamente di legno, un grosso armadio antico si trovava al lato opposto della stanza, una piccola finestra filtrava gli ultimi raggi di sole che andarono ad estinguersi.


Erano circa quattro anni che partecipavo agli incontri degli A.A. in quella piccola chiesetta nella periferia di Brooklyn.


«Ciao ragazzi» salutò Steven – lui non toccava un goccio d’alcol da ben quindici anni ed era diventato il mentore di questo piccolo gruppo.


Si levarono un coro di saluti, si sentirono sedie stridere sul pavimento, poi nuovamente silenzio.


«Sono felice che siate qui oggi, questo può essere un piccolo passo verso un vita più felice, una vita migliore», prese posto su una sedia che cigolò sotto il suo peso, «Ricordatevi che questa non è un’associazione ma una famiglia. Siamo qui oggi per chiacchierare tutti insieme dei nostri problemi, delle nostre dipendenze, dei piccoli passi in avanti od indietro. Siamo qui per essere uniti e per aiutarci a vicenda. Allora, chi ha voglia di iniziare a fare due chicchere?».


«Ciao, sono Landon e sono un alcolista. Non tocco un goccio d’alcol da settantadue ore».


Il ragazzo sulla ventina iniziò a raccontarci della sua dipendenza, il suo primo goccio lo aveva bevuto all’età di dieci anni, ed adesso voleva provare a smettere perché aveva scoperto che sarebbe diventato padre. Aveva paura, paura di non riuscire a mettere al primo posto il suo futuro bambino, invece che una bottiglia di scotch. Poi fu il turno di Samantha, lei aveva smesso di bere per un motivo analogo, aveva smesso quando aveva scoperto di essere incinta. Adesso era mamma di due bellissime bambine e non prendeva in mano una bottiglia da due anni.


«Io sono Joey».


«Ciao, Joey», fu detto in coro. 


«Sono un tossico, sono uscito dal centro di riabilitazione già ben due volte. Oggi sono tre mesi che non mi drogo. Non so se ce la farò a rimanere pulito… è difficile, la dipendenza è una puttana, sono impotente di fronte ad essa, e me ne rendo conto solo adesso… non sono più padrone della mia vita, l’ha resa incontrollabile, la mia e quelle delle persone a me care».


«Questo è un primo passo Joey», proruppe Steven, «Prendere atto che la tua dipendenza ti ha reso impotente, che ti ha reso estraneo alla tua vita è un grande passo. È il primo grande passo. Perché, vi starete chiedendo? Perché non è facile ammettere una completa sconfitta. Perché in genere non ci si riconosce come alcolisti o tossici, si tende a considerare questa nostra dipendenza un vizio non una malattia, e quando si supera lo scoglio della negazione si diventa sempre più consapevoli di ciò che si sta vivendo».


Ci fu un applauso generale a cui mi unii. Ero più che consapevole delle sue parole. Avevo vissuto tutto sulla mia pelle e dopo un metaforico pugno in faccia ero riuscito a comprendere che avevo un problema. 


Me ne ero reso conto nell’istante in cui avevo fatto del male a Claire… la mia dipendenza stava prendendo il controllo della mia vita, peccato che non fossi riuscito a gestire bene quella rivelazione. Mi ero comportato da idiota, da psicopatico, perché anche se potevo farmi ancora una striscia di coca, la mia dose preferita se n’era andata, Claire se n’era andata e mi aveva portato a comportarmi come uno stalker. Ero andato a cercarla, volevo riportarla a casa con me, ne avevo bisogno, ne sentivo l’esigenza… provavo ancora quelle cose, ma ne ero diventato consapevole.


Sapevo che il mio amore verso di lei era malato, avevo paura, in effetti, che sarei stato così con chiunque. Mi ero spinto oltre il limite. Avevo tentato di tenerla con me con la forza… non potrò mai ringraziarla abbastanza per avermi dato la possibilità di farmi aiutare, invece che sbattermi dietro le sbarre per quello che le avevo fatto. Delle volte però pensavo che forse sarebbe stato meglio così, che avrei meritato di marcire in galera. Solo perché la mia dipendenza mi aveva reso schiavo della mia vita, non significava che fossi libero di commettere atti spregevoli. E quello che avevo compiuto verso di lei…


La porta cigolò catturando la mia attenzione, spostai lo sguardo dai miei anfibi per puntarlo in quella direzione. Una ragazza era ferma oltre il ciglio, stava osservando la stanza, insicura se entrare o meno. Molti si comportavano a quel modo, io stesso lo avevo fatto, l’insicurezza, l’incertezza e il dubbio si insinuavano nella tua mente. Ti domandavi se sarebbe servito a qualcosa… Alcuni se ne andavano per poi tornare il giorno successivo e ripetere la stessa scena fino a che non venivano a sedersi, altri invece non tornava affatto.


La ragazza sollevò gli occhi e per un istante incontrò i miei – ricordo che aveva uno sguardo così triste e sconfitto, vuoto, che mi fece stringere lo stomaco – poi li abbassò e lentamente prese posto ad un paio di sedie di distanza dalla mia.


Steven la osservò ma non le disse nulla, si limitò a sorriderle. Era così che funzionava, se volevi parlare bene, se eri li solo per ascoltare ancora meglio… ognuno aveva i suoi tempi, e spingere una persona ad aprirsi era come se la invitassimo a non tornare più. Li eravamo tutti come animali in gabbia, spaventati, dovevamo fidarci gli uni degli altri prima di tornare a respirare regolarmente.


Feci leva sulle cosce e mi alzai. «Ciao, sono Travor e sono un tossicodipendente».


«Ciao, Travor».


Mi rimisi a sedere e prima di iniziare a parlare giocherellai con gli anelli che avevo alle dita. «Non mi faccio una dose da cinque anni, questo non significa però che io sia ripulito. Non tutte le dipendenze riguardano l’alcol o la droga… la mia dipendenza è una donna», ammisi
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