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Capitolo 14 




Count on me






“You’ll always have my shoulder when you cry


I’ll never let go


Never say goodbye


You know you can


Count on me like one two three


I’ll be there


And I know when I need it I can count on you like four three two


And you’ll be there


‘Cause that’s what friends are supposed to do, oh yeah


Oh, oh


You can count on me ‘cause I can count on you”


~ Bruno Mars (Count On Me)






Teresa


Quando il cellulare squillò per l’ennesima volta decisi che era giunto il momento di rispondere.


«Papà».


«Teresa».


Sentii gli occhi pizzicare e mi apprestai a mordermi l’interno guancia per non piangere.


«Dove sei, bambina? Stai bene? Torna a casa» parlò a macchinetta.


«Sto bene», mi strinsi nella giacca mentre a piedi mi allontanavo dalla piccola chiesetta di Brooklyn per tornare a casa di Travor.


Come promesso avevo iniziato a frequentare gli incontri, continuavo a rimanermene in silenzio ad ascoltare gli altri, e pensavo ancora che fosse inutile, ma avevo detto a Trav che avrei fatto quello sforzo, così una volta a settimana mi presentavo nella chiesa della periferia di Brooklyn, mi appollaiavo su una scomoda sedia di plastica per un’ora, e ascoltavo sconosciuti sfogarsi sulla propria vita e sulle proprie dipendenze. 


«Torna a casa Tess, dove sei?», la pena nella sua voce mi fece stringere il cuore. 


«Sto a casa di un amico papà, non devi preoccuparti».


«Chi è?», non riuscì a nascondere che lo avesse detto tra i denti, probabilmente pensava che si trattasse di uno spacciatore o chissà chi.


«Non preoccuparti papà, è un bravo ragazzo. Mi ha aiutata a trovare un lavoro all’acquario». Non potevo certo dirgli che avevo accettato di rimanere ospite a casa di uno sconosciuto, così sperai che parlandogli del lavoro lo avrei distratto.


«Lavori all’acquario?», sembrava felicemente stupito e un piccolo sorriso incurvò le mie labbra. Non volevo più essere un peso per mio padre e nemmeno un dolore.


«Si, ho iniziato due settimane fa».


«È una notizia stupenda bambina», malgrado non fossi più una bambina da molto tempo, mio padre continuava a considerarmi tale, ma devo ammettere che mi era mancato sentirmi la sua “piccolina”. 


«Si» sussurrai mentre camminavo svelta sul marciapiede.


Calò per un attimo il silenzio, l’imbarazzo mi aveva ammutolita e non sapevo più come portare avanti quella conversazione.


«Mi dispiace», lo dicemmo all’unisono e delle lacrime sfuggirono al mio controllo insieme ad una risatina amara.


«Non avrei mai dovuto dirti di andartene, sei mia figlia e ci sarò sempre per te. Mi sono pentito delle mie parole nell’esatto momento in cui mi sono uscite di bocca. Quando sono sceso per chiederti scusa ed ho letto il biglietto… mi si è spezzato il cuore. Torna a casa Tess, anche Gwendoline è preoccupata».


Non ci credevo troppo che la mia matrigna fosse preoccupata, in fondo ero stata io quella che l’aveva presa a schiaffi ed ero sicura che non me l’avrebbe fatta passare liscia così in fretta.


«Mi dispiace per tutto quello che ho detto e che ho fatto…», mi vergognavo di me stessa, non avrei mai voluto che mio padre vedesse quel lato di me, «Ma non posso tornare a casa».


«Teresa…».


«No, papà» dissi risoluta. «Devo riuscirci da sola, capisci?».


Rimase in silenzio per un lungo istante. «Voglio conoscere questo tuo amico, da cui stai».


Assolutamente no! «Non è necessario».


«Teresa non ti sei fatta sentire per più di un mese, ora mi dici che per tutto questo tempo sei stata a casa di un tuo amico. Voglio sapere chi è, che sei al sicuro».


Mi fermai quando raggiunsi il portone di casa di Travor.


«Ne parlerò con lui», non lo avrei fatto.


«Va bene», lo sentii rassegnarsi, «Se domani ti chiamo risponderai?», la sua voce si era fatta triste e carica di speranza.


«Certo, papà».


«Ti voglio bene, bambina».


«Ti voglio bene», chiusi la telefonata prima che si accorgesse che avevo iniziato a piangere.
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