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Capitolo 23


L’amore non ha logica






“Chi ama non sa mai quello che ama,


né sa perché ama, né cosa sia amare…”


~ Fernando Pessoa (Il mio sguardo è nitido come un girasole)






Teresa


«Non ti amo», la risposta alla mia domanda arrivò affrettata e andò subito al punto.


Alle sue parole qualcosa mi si smosse nel petto e, stranamente, non era sollievo.


Travor si passò una mano tra i capelli sudati e distolse lo sguardo. «I “ti amo” post-coito non contano, no? Amo il modo in cui mi fai venire», parlò a macchinetta, quasi in imbarazzo.


Un sapore amaro mi riempì la bocca, le mani si chiusero a pugno dalla voglia bruciante che avevano di dargli un ceffone. «Bene. Perfetto» dissi mettendo su un sorriso finitissimo.


Non ero sicura della ragione per cui le sue parole mi avessero dato fastidio. In fondo quando aveva detto di amarmi avrei voluto che si rimangiasse quelle parole, perché, sentirsele dire da qualcuno che non era Marco, aveva fatto male. Eppure, adesso, sentirgli ammettere che lo aveva fatto solo perché gli avevo dato un orgasmo, mi provocò un bruciore di stomaco e mi fece sentire sporca. Nemmeno per un attimo mi era passato per la mente che il suo “ti amo” fosse dettato da qualcosa di diverso dal sentimento, quando me lo aveva detto, occhi negli occhi, gli avevo creduto.


«Bene» ribadì, facendo un passo indietro, come se volesse scappare, quando quella che non vedeva l’ora di andarsene ero io.


Feci per andare in camera, poi cambiai idea.


«Ecco io…», catturai il labbro inferiore tra i denti, tirai una pellicina sino a sentire il sapore metallico del sangue. Trav seguì la mia lingua pulire il liquido scarlatto prima di guardarmi negli occhi. «volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me, per avermi dato un posto dove stare in questi mesi. È il momento che me ne vada e che ti faccia tornare alla tua vita, che io cerchi di tornare alla mia. Non so proprio come potermi sdebitare, adesso che ho uno stipendio fisso permettimi di pagarti una parte di affitto per i mesi che sono rimasta qui…».


«No», venni interrotta durante il mio monologo.


Scossi la testa. «Si, invece. Mi hai aiutata a superare un momento difficile, quando nemmeno mi conoscevi. È il minimo che possa fare».


«No», dimezzò lo spazio che ci divideva, il suo corpo mezzo nudo e sudato mi provocò un familiare formicolio al basso ventre.


Mi sarebbe mancato poterlo toccare, farmi toccare, anche solo con un abbraccio. 


«Non puoi».


«Cosa?».


«Non puoi andartene», il suo sguardo mi implorò di ascoltarlo, mentre io mi accigliavo perplessa. 


«Si, devo. Voglio andarmene».


Scosse la testa, si passò una mano tra i capelli, fece un passo indietro e poi uno avanti. 


«Fanculo!», imprecò, «Ti amo, okay?!», mi bloccò con i suoi occhi, «Ho appena detto un mucchio di stronzate, perché tu continuavi a evitarmi e ho pensato che fosse meglio far finta di niente, come se non lo avessi mai detto, per tornare come prima, ma se il risultato è che tu decidi di andartene… col cazzo! Io ti amo!».


Nell’appartamento cadde il silenzio. Non sapevo cosa dire, non sapevo bene cosa provare. Sapevo di avere paura.


«Non posso darti una risposta al perché io ti ami», mormorò, dopo un tempo che sembrò infinito. «Esiste, poi, una spiegazione logica al perché si ami una persona? Io so solo che da quando ti ho conosciuta ho ripreso a vivere senza limitarmi a esistere. Posso farti un elenco di quello che amo di te: il modo in cui arricci il naso quando sorridi; i tuoi calzi con i pinguini; il fatto che non sai fare nemmeno un uovo al tegamino; il suono della tua risata; i tuoi occhi violetti; il tuo profumo; il modo in cui mi baci…».


Non gli feci terminare l’elenco, che sembrava infinito, gli misi le braccia al collo e unii le nostre bocche in uno di quei baci, che a quanto pareva amava.
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