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Capitolo 25




Tutti hanno bisogno di un amico


“Non posso darti soluzioni per tutti i problemi della vita,


non ho risposte per i tuoi dubbi o timori,


però posso ascoltarli e dividerli con te.”


~ Jorge Luis Borges (L’amicizia)


Teresa


«Ciao, sono Ember e sono un’alcolista».


«Ciao, Ember», ripetei in coro insieme al resto del gruppo.


«Non bevo da cinquantasei giorni».


Da quel punto in poi smisi di ascoltarla. Mi misi più comoda sulla sedia in plastica blu, e pensai che io non avevo tenuto il conto di quando avevo smesso di farmi o di bere più del dovuto. In realtà mi sembrava passata un’eternità da quella mia sbandata. Sapevo solo grazie a chi ero riusci a superarla, e non era per merito degli alcolisti anonimi. Questo mi faceva sentire in colpa, come se li stessi imbrogliando presentandomi a quegli incontri.


Con Travor ero d’accordo che mi sarei presentata una volta a settimana, con il tempo, però, avevo iniziato ad andarci meno. Non avevo ancora mai parlato, mi avevano solamente spronata a presentirmi qualche tempo prima.


Il mio nome, era tutto quello che quel gruppo di estranei sapeva di me.


Per la maggior parte di loro, quel posto, quei membri, era diventato un porto sicuro. Si sentivano parte di una famiglia, gli si leggeva negli occhi ogni volta che si aprivano, o qualvolta ricevevano un abbraccio da Steven – mentore del gruppo – o da qualcuno che si era trovato in una situazione analoga. Ero al corrente che quel gruppo di persone aveva fatto tanto per alcuni, ma con me solo una persona ci era riuscita…


Quando la seduta giunse al termine salutai un paio di persone per poi uscire dalla piccola chiesetta di Brooklyn. Faceva sempre un po’ male, mettere piedi lì dentro, rivivere il ricordo di quel giorno. Ma piano piano, il senso di oppressione, che mi serrava lo stomaco ogni volta che osservavo una delle vecchie panche, stava scemando.


Quando uscii in strada mi strinsi nel cappotto, eravamo verso la fine di novembre e il clima di New York si faceva sempre più rigido. Ero quasi certa che per Natale avrebbe nevicato. Mentre mi incamminavo verso la rosticceria cinese poco più su, scrissi un breve messaggio a Travor chiedendogli cosa volesse per cena. Era un semplice messaggio, ma quando misi via il cellulare mi risultò una cosa così intima…


Quando entrai nel ristorante ero così persa nei miei pensieri che andai a sbattere contro qualcuno senza nemmeno accorgermene. Mi girai di scatto e iniziai subito a elargire le mie scuse.


«Teresa» mi sorrise un volto familiare.


Osservai due grandi occhi nocciola, un piccolo naso a punta e un ammasso di ricci scuri prima di sorridere a mia volta. «Ciao, scusa se ti sono piombata addosso».


Una fila di denti bianchi fece capolino quando Nan allargò il sorriso. «Nessun problema, anche io ero distratta», agitò il cellulare che teneva in mano.


«Anche voi cinese?» mi informai facendo un cenno con il capo al sacchetto da asporto che aveva nell’altra mano.


Annuì. «Jex si comporta come una donna incinta, se non mangia qualche involtino primavera durante la settimana, dice che il bambino nascerà con una gigantesca voglia sulla fronte», alzò gli occhi al cielo per poi ridacchiare.


Le labbra mi si incurvarono in un sorriso, poi la mia mente registrò le sue parole. «Sei incinta?».


Scosse la testa e una diversa espressione, più dolce, le trasformò il viso. «No, ma stiamo cercando di avere un bambino».


«Congratulazioni» le dissi sinceramente felice per loro.


Quando fu il mio turno di ordinare tirai fuori il telefono e rilessi quello che Travor voleva per cena, quando mi spostai in un angolo per aspettare la mia ordinazione Nan mi seguì.


«Non ti si raffredda la cena?». 


Fece spallucce. «Allora, come va?».


Mi morsi il labbro inferiore, con una strana voglia di aprire la bocca e buttare fuori tutto quello che mi era successo in quei mesi, come l’acqua che straborda da un bicchiere ormai troppo pieno. Non sapevo con precisione cosa Nan sapesse di me, o della “relazione” che avevo con Travor. Lui non mi sembrava una di quelle persone che si apriva facilmente, ma lei d’altronde era la ragazza del suo migliore amico. Tutti ogni tanto hanno bisogno di sfogarsi, di tirare fuori tutti i demoni che ci logorano dall’interno e io, in quel momento, lo sapevo davvero bene.


In quel preciso istante mi resi conto di una cosa davvero triste: non avevo nessuna amica. Certo, non è che non me ne fossi già resa conto prima, diciamo però, che in quel momento, ne sentii sul serio la mancanza. Volevo davvero qualcuno con cui parlare. Fino a quel momento Travor era stato la mia unica valvola di sfogo, ma con lui non potevo parlare di un certo ragazzo dagli occhi color smeraldo, che mi stava confondendo e facendo provare qualcosa che non ero in grado di spiegare. 


Avevo proprio bisogno di un’amica.


«Io…» aprii bocca, senza sapere con precisione cosa avrei detto, ma poi il cellulare di Nan squillò e mi rivolse un’occhiata di scuse.


«Sto bene, tra poco sono a casa», un sorriso diverso da quelli che aveva elargito a me trasformò il suo bel viso.


Alzò gli occhi al cielo per qualcosa che il suo interlocutore disse dall’altro capo della linea, poi ridacchiò.


«Ti amo anche io» mormorò mettendo poi nuovamente il cellulare nella tasca del cappotto.


«Scusami, Jex sa essere iperprotettivo delle volte», scosse la testa.


«Nessun problema».


«Allora ,cosa stavi…», questa volta fu il mio telefono a squillare.


Un piccolo sorriso ironico incurvò le labbra di Nan mentre io sollevai le spalle.


«Pronto».


«Ciao, bambina».


«Ciao, papà. Che succede?».


«Ecco, Gwen voleva sapere se avresti portato anche il tuo amico alla cena del Ringraziamento?».


Sentii una stretta allo stomaco, poi mi accigliai. 


Cavoli, non ci avevo proprio pensato… 


Sapevo che Travor sarebbe andato da i suoi genitori per Natale, lo avevo sentito mentire spudoratamente a sua madre per rifiutare l’invito per la festa del Ringraziamento, però non avevamo parlato di quello che avrebbe fatto.


«Non lo so» ammisi sinceramente.


«Beh, potrebbe essere un modo per farcelo conoscere», tentò papà.


Si, ma io ero pronta a far conoscere a lui Travor? Mi sembrava così assurdo anche solo il pensiero. Però, una parte di me, era quasi euforica alla prospettiva di passare con lui la nostra prima festività, di fargli vedere la casa dove ero cresciuta, di fargli conoscere mio padre e perfino Gwendoline.


«Non lo so» ripetei in un sussurro.


Nan mimò con la bocca un “tutto okay” al quale annuii poco sicura.


Dall’altra parte del telefono ci fu un lungo silenzio, poi dopo una serie di rumori soffocati la voce dell’interlocutore cambiò. 


«Che ne dici di farcelo sapere domani? Il Ringraziamento è tra tre giorni e vorrei davvero sapere cosa preparare».


Una punta di irritazione mi colorò il viso dopo il commento della moglie di mio padre.


«Va bene» risposi fredda.


Ci fu un sospiro. «Spero che tu decida di invitarlo». 


La linea cadde e io guardai lo schermo fino a che non diventò nero. Gwen aveva centrato il punto: lo avrei chiesto a Travor?


«Va tutto bene?».


Sollevai lo sguardo su Nan e annuii. Mi fissò per qualche istante poi iniziò una frase proprio quando il mio nome venne pronunciato per il ritiro del mio ordine.


Sbuffai irritata.


«Sembra proprio che non ci vogliano far parlare» constatò ridacchiando quando la raggiunsi con il mio sacchetto.


«Già» scossi la testa.


«Che ne dici se ci vediamo domani, per un caffè», mi fissò, come se in qualche modo avesse letto nel mio sguardo che avevo davvero bisogno di qualcuno con cui parlare.


«Mi sembra un’ottima idea», mi ritrovai a sorridere un’istante dopo.


Ricambiò il mio sorriso, poi ci scambiammo i numeri dopo esserci messe d’accordo per il luogo e l’ora. La salutai con la mano, mentre saliva in auto e io mi dirigevo verso qualche isolato più in giù, per tornare a casa.
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